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venerdì 1 giugno 2012

Il richiamo del Japji Sahib.

Fino a qualche mese fa, nonostante già fossi più che instradata sulla via dello yoga, credevo ancora che leggere un testo sacro fosse una cosa insensata, una cosa che non può produrre alcun effetto.

Come può una lettura illegibile produrre effetti sulla nostra mente? A primo impatto solo a guardarla pensi che non riuscirai mai a leggerla: "ma come sono accoppiate queste lettere? Io ci metterei più vocali!". Ovviamente non mi riferisco all'alfabeto gurmukh, ma alla traduzione di quei suoni nel nostro alfabeto.

Ed invece, quando ci cimenti nella lettura del Japji guidato da un maestro o dalla sua registrazione, succede qualcosa di strano: ti accorgi presto che non è così impossibile. Magari non la prima o la seconda volta, ma già dalle volte successive qualcosa accade. 

Accade che il suono risulta familiare. E ti ritrovi a saper leggere, anche se un po' grossolanamente intere righe.  Questa è un po' la caratteristica della lingua gurmukh: pare che sia stata ideata con suoni primordiali ed onomatopeici. Ma personalmente farne l'esperienza è tutt'altro che leggerlo in un libro. 

Essendo un canto, ha ovviamente anche un signor-significato: sono le parole che ha pronunciato Guru Nanak dopo essersi Risvegliato. Una volta avutane l'idea, conoscerne la traduzione a memoria non serve a nulla. 

Stamani quando ha suonato la sveglia per la mia piccola Sadhana (che troppo spesso ultimamente ho rimandato alla sera), mentre la mia cagnolina festosa mi sbaciucchiava un braccio, il primo pensiero è stato "Japjii". E così è stato. Come un richiamo. E' la seconda volta che mi succede e non mi spiego neanche il perché. Ed al momento non è neanche così importante.

Forse succede solo perché "Jap" significa canto e "Ji" significa anima: il canto dell'anima


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